If I woke up one day / Sabrina Melis

IF I WOKE UP ONE DAY

 

Elaborazioni spaziali da un altro mondo.

Cosa succederebbe se il mondo un giorno si svegliasse in un luogo diverso da quello abituale?

If I woke up one day è uno spazio di fantasia, all’interno del programma Living Room, nel quale il tempo, lo spazio, le relazioni umane, la natura hanno mutato forma e il virtuale è diventato reale.

Un artista alla settimana immagina cosa accade oltre la parete, sperimentando liberamente lo spazio e come questo si rapporta al limite in un universo distopico.

LIVING ROOM

Sabrina melis

Sabrina Melis, Habena

2019 | FullHD video, color, sound – 8’13”

 

Habena è un film in tre atti che invita lo spettatore a cercare il legame tra le parti che lo compongono. Il video vive una temporalità stratificata, in cui ogni scena scorre autonomamente ma che insieme descrivono la transizione da ciò che non ha ancora raggiunto la sua maturità d’uso a ciò che non è più utile, alla ricerca di tracce che possano aiutare nella comprensione di questo passaggio. La domanda che si pone l’artista è se c’è o c’è stato qualcosa nel mezzo, ponendo l’attenzione su ciò che solitamente non è afferrabile o non comprendiamo poiché concentrati sul risultato.

Strumenti da cantiere e materiali da costruzione sono i protagonisti del primo capitolo di Habena. Questi oggetti, che non hanno ancora raggiunto la maturità legata alla loro funzione, prendono vita in uno spazio che non è fisico, ma creato da un software 3D. L’interludio unisce prima e ultima parte del film diventando esso stesso testimonianza. Si ispira alla Tsukubai: un bacino di roccia naturale collocato in alcuni giardini zen e che raccoglie l’acqua che trabocca dal lavaggio delle mani.

Nell’ultima parte del video un oggetto d’uso comune che ha perso completamente la sua utilità è ancora in grado di trasmettere varie informazioni legate alla materia di cui è composto. Un’analisi attenta cerca le risposte sulla sua superficie per capire da quale mondo proviene.

conversation pieces

Camilla Compagni (bio) e Sabrina Melis (bio)

Camilla Compagni​: Ho letto recentemente ​Artistic Bitches and Curatorial Bastards, ​una conversazione tra Claire Fontaine e Jens Hoffmann pubblicata nel 2016 su ​The Exhibitionist​. I due ragionano su cosa significa per un artista e un curatore continuare a lavorare insieme nel tempo e a progetti molto diversi tra loro.

Personalmente penso spesso al fatto che mentre lavoro a un testo o a un progetto una parte consistente del dialogo con l’artista finisce per non emergere. Allo stesso tempo credo che quello che rimane sommerso sia importante per consolidare una conoscenza non superficiale dell’altro e che sia proprio ciò che resta tra le righe a diventare lo spunto per possibili nuovi progetti. Con la nostra conversazione in questo spazio digitale che è Living Room di Manifattura Tabacchi, abbiamo l’opportunità di riflettere sul tuo lavoro documentando anche discorsi che normalmente rimarrebbe dietro le quinte.

Sabrina Melis: Per me la cosa più interessante è legata al fatto che a intervalli più o meno regolari ci si ritrova, come succede a noi. Lavorare più volte insieme va in qualche modo a confermare la fiducia che ognuna ha riposto nell’altra, costruendo un rapporto sempre più maturo. In questo caso la nostra conoscenza è fondamentale per affrontare un progetto a distanza per uno spazio digitale, soprattutto per la rapidità nella presa di decisioni più o meno complesse. Questo comprende anche la condivisione di timori e dubbi che vanno oltre l’opera che qui presentiamo. Non sarebbe possibile questa conversazione senza una base dalla quale partire. Il fatto di conoscerci può permettere l’emergere di pensieri rimasti fino ad ora in profondità riguardo ad un’opera che tu conosci dal suo primo sviluppo, quando ancora non erano state previste alcune parti. Quindi, grazie Camilla per avermi invitata.

Habena

 

CC​: Prima di iniziare, chi è ​Habena​?

 

SM​: Forse è un’entità invisibile che nasconde il suo aspetto ma non le sue intenzioni. Forse è la sensazione che ci siano dei collegamenti tra le cose anche se non si riesce a dire quali siano e perché esistano. Forse è la traccia di un sogno che ricordi di aver fatto, senza averne memoria.

Habena è un termine latino dalle molteplici traduzioni ma che, qualunque sia il suo contesto, definisce un elemento che ha la capacità di tenere insieme le cose. Il sostantivo e la sua qualità intrinseca sono lo spunto per pensare a un film che parli appunto delle cose, che racconti una storia di oggetti comuni e della transizione che li assimila all’uomo legata all’obsolescenza della loro efficienza.

I tre video che compongono ​Habena​, nonostante la loro ideale autonomia, costruiscono insieme una narrazione più complessa dalla temporalità stratificata. Quello che si registra è il passaggio da ciò che ancora non ha raggiunto la sua maturità d’uso a ciò che di sicuro è stato utile ma ora non lo è più. L’interazione tra le parti esprime la connessione degli elementi suggerendo la possibilità che esistano momenti intermedi.

Quello che occorre fare allora è interrogarsi per capire se nel mezzo c’è o c’è stato qualcosa e seguirne le tracce per continuare a leggere e immaginare mondi. (CC)

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Untitled

 

Strumenti da cantiere e materiali non lavorati sono i protagonisti di Untitled​, il primo capitolo di ​Habena​. Si tratta di oggetti che non hanno ancora raggiunto la maturità legata alla loro funzione, che si animano in uno spazio intangibile, creato attraverso un software di modellazione 3D.

Una gru, una betoniera, mattoni e tubi si muovono in uno spazio virtuale ovattato, senza nessun riferimento al reale. Non c’è traccia della presenza umana, nessuno manovra le macchine, nessuno interviene guidando le loro azioni: siamo spettatori della costruzione di qualcosa di cui non possiamo prevedere i contorni. Obbligati quindi a una posizione improduttiva, ci esercitiamo a osservare e a lasciare da parte quella tensione continua che ci impone in ogni ambito dell’esistenza di raggiungere uno scopo. (CC)

 

CC: ​Io ho potuto vedere questo primo atto di ​Habena dal vivo, credo sarebbe stato profondamente diverso conoscerlo ora, individualmente e nell’intimità di casa. Ricordo di aver percepito in modo molto forte l’esclusione della presenza umana. In un momento in cui tutti contemporaneamente stiamo sperimentando un certo tipo di isolamento può avere un impatto diverso?

 

SM: Credo di sì, probabilmente colpisce meno ora che in altri momenti, direi che ci siamo un pò abituate a vedere strade deserte e a evitare i contatti fisici. L’assenza che hai individuato all’interno del video è una conseguenza del mio poco interesse verso la figura umana, la presenza dei macchinari da cantiere è invece prova del grande fascino che hanno viceversa su di me i frutti dell’ingegno umano.

 

CC: ​In effetti i protagonisti del video sono strumenti da lavoro. A me evocano un immaginario legato alla produttività e all’ottimizzazione del tempo. Quali sono le tue considerazioni sulle esigenze di performatività che condizionano le nostre attività? Penso che questo aspetto emerga con maggiore intensità in questo momento di sosta forzata.

 

SM: ​L’idea di ottimizzazione del tempo mi accompagna quotidianamente, depennare e incastrare appuntamenti e situazioni per me è diventato quasi più soddisfacente che viverli. Non vedo più una grande distinzione tra ciò che ci aspettiamo dalle macchine e ciò che invece pretendiamo da noi stessi. L’ultra-produzione però, si sa, non è mai positiva e penso che questa sosta forzata ci stia aiutando a capire che esistono altri modi possibili per affrontare le cose, molto più sostenibili, sia economicamente che psicologicamente.

 

CC: Questo è vero, il confine tra uomo e tecnologia è sempre più sottile e ci condiziona. Dispositivi progettati per rendere più efficienti le nostre attività in alcuni casi possono completamente rimpiazzarci e allo stesso tempo l’uomo sembra fare di tutto per rimuovere quello che ancora lo rende insostituibile. Trovo interessante anche in questo senso chiederti perchè hai scelto di lavorare al video con un software di modellazione 3D. Lo spazio che hai creato è un microcosmo in cui gli oggetti sono dotati di agentività e costruiscono qualcosa in totale autonomia.

 

SM: ​I macchinari presenti nello spazio eseguono delle azioni ripetute senza un apparente scopo. La gru solleva dei tubi che poi lascia cadere, per me un piccolo richiamo al fallimento, e la betoniera impasta dei mattoni già formati. Hanno i loro ritmi ma non riflettono su quale potrà essere l’esito finale, di fatto il risultato è solo quello di ripetere le azioni. Non hanno niente da costruire.

Ho scelto il linguaggio della grafica 3D, tipica della simulazione, proprio perchè mi ha permesso di creare un luogo nuovo e di allontanarmi sia dagli ambienti che dalle funzioni consuete.

 

CC: La ripetitività delle azioni eseguite dai tuoi oggetti mette in luce i limiti della macchina rispetto all’uomo? Cioè l’assenza di una necessità, di un pensiero?

 

SM: Non so se chiamarli limiti, in alcuni casi potrebbero essere considerate caratteristiche desiderabili, dipende dalla situazione. La mancanza di uno scopo è qualcosa che l’essere umano non vive serenamente, forse talvolta vorremmo essere più macchine anche noi. Lo dico mentre penso a quei lavori molto ripetitivi che riescono ad annullare il pensiero (e che a me piacciono molto).

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Interludio

 

Interludio è il video che unisce fisicamente e concettualmente la prima e l’ultima parte di Habena.​ I suoi diversi linguaggi, dalla ripresa alla modellazione 3D passando per l’animazione 2D, raccontano una storia e un tempo intermedi in cui la presenza della mano è una sorta di filo conduttore tra scene in apparenza discontinue. Il primo soggetto del video è un mattone di cemento che ha perso la sua funzione per trovarne una nuova, inconsapevolmente si è trasformato in una ​tsukubai,​ un bacino di roccia naturale che nei giardini zen ha la funzione di raccogliere l’acqua che trabocca dal lavaggio delle mani. L’oggetto è uno strumento, ha uno scopo preciso, e sono le mani ad attivarlo ricordandoci come il nostro rapporto quotidiano con ciò che ci circonda è mediato da gesti. Le mani sono quindi in grado, nella seconda parte del video, di portare avanti in autonomia la narrazione, di raccontare storie e comunicarle. (CC)

 

CC​: Ho l’impressione che questo video, non previsto nella prima versione di Habena​, abbia un significato particolare all’interno del film, che ​Interludio non sia solo un elemento di continuità come sarebbe immediato aspettarsi. La stessa alternanza di linguaggi mi fa pensare che sia la traduzione di altro.

 

SM: Interludio risponde alla necessità di creare un momento di unione tra la prima e la terza parte del film, tra loro molto diverse, sia a livello di linguaggio che di contenuto. Poi, come dici tu, è diventata anche altro perché se la parte centrale di un video è quella in cui solitamente si sviluppa la storia, in questo caso invece diventa una pausa composta da brevi scene. I frammenti si alternano alla ricerca di una propria identità, così ​Interludio mentre tiene insieme gli altri due video riesce anche a raccontare qualcosa di suo.

 

CC: Parliamo di tempo: l’opera è cambiata rispetto alla sua prima versione, si è evoluta e trasformata. Mi piace il fatto che un’opera la cui narrazione ha al centro un processo temporale sia stata essa stessa oggetto di una mutazione. Posso immaginare che questa propensione a intervenire possa essere emblematica non solo del tuo rapporto con questo preciso lavoro, ma anche caratteristica della tua pratica?

 

SM​: Esatto, questa parte inizialmente non era prevista, ma come spesso accade, alcune cose pensate molto tempo fa non sono più valide oggi. In effetti mi è già successo di tornare a ragionare su lavori che avevo considerato ultimati. Non vivo molto serenamente questa continua tentazione di cambiare le cose perché finisco per non avere, almeno ai miei occhi, niente di realmente concluso. Allo stesso tempo però penso sia abbastanza normale rivedere qualcosa e riconoscere che alcuni aspetti sono rimasti in potenza, mi piace credere che le cose evolvano insieme a noi.

 

CC​: Le mani, anche in assenza, sono le protagoniste del video insieme al mattone. Ho quasi l’impressione che facciano la loro comparsa proprio nel capitolo di mezzo a loro volta come “oggetti intermedi”.

 

SM: ​Le mani sono l’unica parte del corpo che compare nei tre episodi di cui ​Habena è composto, in quanto simbolo di creazione ma anche di uso e distruzione. Questo doppio potere che le mani possiedono è insito negli elementi presenti nel video, come dici tu, anche in assenza.

 

CC: L’azione svolta dalle mani nel video rimane in gran parte sottintesa e quando è dichiarata non è comunque immediatamente afferrabile. Comunicano nel linguaggio dei segni? Cosa raccontano?

 

SM: ​Sì, ho scelto un font che scrive attraverso il linguaggio dei segni, ma la scelta non è legata tanto alla sua funzione quanto alla sua forma. Le mani così raccontano un mio breve sogno, e quello che ho cercato di restituire con le immagini è la sensazione che ricordo di aver provato. Anche per questo motivo le scene sembrano slegate tra loro, perché accade questo quando si sogna, si passa da una situazione all’altra senza logica e senza preavviso.

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Indestructible stones – a superficial documentary

 

Indestructible stones – a superficial documentary,​ l’ultimo atto di ​Habena,​ ha per protagonista una tovaglia accartocciata che nel video assume i tratti di un oggetto alieno. Pur essendo riconoscibile è completamente decontestualizzata: non si trova nel luogo in cui immaginiamo dovrebbe essere, ha perso del tutto la sua funzione e non la potrà riacquistare perché il tempo e l’abbandono l’hanno irrimediabilmente deteriorata.

Nonostante tutto, l’oggetto è ancora in grado di trasmettere informazioni legate alla materia di cui è composto. La sua superficie, sottoposta a un’indagine attenta, rivela da quale mondo proviene e quale sorte lo attende. (CC)

 

CC​: Questo ultimo video è l’unico a cui hai voluto dare un titolo. Immagino la tua scelta abbia un significato particolare, così come il titolo stesso.

 

SM​: Sì, l’ultimo atto di ​Habena​ ha un suo titolo, nato abbastanza spontaneamente.

L’idea di ​documentario superficiale non si riferisce solo al fatto che nel video vado ad analizzare la materia di superfice di cui è composto l’oggetto, ma anche al tipo di ricerca fatta. Le definizioni che compongono il testo che si sovrappone alle immagini sono l’esito di una ricerca su internet nella quale mi accontento del primo risultato trovato. Dal primo testo che ho letto in relazione a “plasticità” ho scelto una parola affidandomi a rimandi ipertestuali, senza seguire una traiettoria precisa. Con questo metodo, a cui facciamo un po’ tutti

affidamento quotidianamente, sono arrivata a costruire un’analisi imprevista che dalla prima definizione mi ha portata a quella di “tempo”, concetto in realtà per niente superficiale.

 

CC​: In una delle prime domande ti chiedevo di parlarmi della scelta di lavorare con un software di modellazione 3D. Qui hai scelto un linguaggio diametralmente opposto, il documentario. Mi chiedo cosa rappresenti questo passaggio nell’ottica dell’evoluzione spaziale e temporale di ​Habena​.

 

SM: ​Questo linguaggio mi è molto caro, e in questo contesto mi è sembrato adatto per concludere un discorso nato con una scena completamente costruita. La situazione è stata vissuta da me in prima persona, casualmente, sull’isola di Milos. Mi trovo spesso a fare riprese che poi raccolgo scrupolosamente e che mi hanno permesso nel tempo di creare un piccolo archivio. Si tratta di scene che quasi mai sfociano in un progetto, ma che ogni tanto vado a riguardare. Sono molto legata al movimento delle immagini e alla parte sonora che le completa.

 

CC​: Il soggetto di questo video è un residuo, qualcosa che ha perso la sua utilità ma non ha smesso di esistere e di comunicare informazioni. Il tema dell’obsolescenza delle cose mi sembra più che mai presente, vorrei chiederti quali sono le tue riflessioni al riguardo e se questo argomento rientra in modo specifico nella tua ricerca.

 

SM​: L’argomento dell’obsolescenza rientra nella mia ricerca in modo trasversale. L’utilizzo o il non utilizzo delle cose porta sempre con sé delle informazioni che ci permettono di risalire in qualche modo alla storia che hanno vissuto. Diciamo che somiglia, anche se molto lontanamente, a una ricerca archeologica. La differenza sta nei soggetti su cui si concentra l’indagine, che nel caso dei miei lavori non hanno nessun valore storico o artistico.

 

CC: ​Mi piace la tua metafora, questo forse ha anche a che fare con un altro tipo di attività, con il prendersi cura degli oggetti?

 

SM: In un certo senso sì, una cura intesa come rispetto e osservazione. Mi interessa provare ad andare oltre le funzioni che vengono imposte e cercare la personalità all’interno delle cose. Credo che ogni oggetto abbia qualcosa da dire se si ha l’attenzione di guardare oltre la superficie.

Sabrina Melis

(1986)

 

Sabrina Melis è un’artista e designer italiana.


Da sempre interessata alla progettazione e alle nuove tecnologie, concentra la sua ricerca sul tema dell’abitare umano, che viene osservato sotto diversi aspetti. Si focalizza su tutto ciò che ha a che fare con gli usi, le abitudini e i passaggi dell’essere umano attraverso gli spazi, siano essi fisici o virtuali. Attraverso l’analisi di queste memorie si interroga sullo scopo di tali attraversamenti, cercando delle tracce che riportino ad un movimento universale.

sabrina melis su instagram

Nel suo lavoro utilizza spesso la finzione per combinare fatti e informazioni reali con ipotesi di realtà, attraverso l’uso di diversi media, con una predilezione per il video e l’installazione.

Sabrina è nata a Milano nel 1986.


Vive e lavora tra Alghero e Carrara.


Ha frequentato il Dipartimento di Architettura e Design di Alghero conseguendo una Laurea in Design nel 2011 e un Master in Design della Comunicazione nel 2013. Lì ha cominciato nel 2014 la sua ricerca sui Linguaggi Multimediali. Nel 2019 ha concluso un corso di Laurea di II livello in Arti Multimediali del Cinema e del Video presso l’Accademia di Belle Arti di Brera di Milano. È attualmente dottoranda presso il Dipartimento di Architettura e Design di Alghero e docente di Linguaggi Multimediali presso l’Accademia di Belle Arti di Carrara.

I suoi lavori sono stati esposti, tra gli altri, alla Biennale de la jeune création contemporaine (Mulhouse), Triennale Design Museum (Milano), The Wrong, digital art biennale (Online), Screensaver Gallery (Online), Columbia University (NYC), FRAC Corse (Corsica).

Nel 2018 le è stato assegnato il Premio Nazionale delle Arti per la sezione Arte Elettronica.

Camilla Compagni

 

Camilla Compagni (1991) è una curatrice che attualmente vive e lavora a Torino.

Si laurea nel 2017 in Arti Visive presso l’Alma Mater Studiorum – Università di Bologna e sceglie nel 2019 di integrare la sua formazione con Campo – Corso per curatori della Fondazione Sandretto Re Rebaudengo.

Dal 2018 cura progetti collaborando con istituzioni e realtà indipendenti. I progetti recenti includono: burning, burning(Brace Brace, Milano, 2019), Little we see is ours (Zecchini Musica, Verona, 2019) e TBD Ultramagazine (2020).

Tra le altre attività, è invitata a tenere lezioni nei corsi di Linguaggi dell’arte contemporanea e Storia dell’arte contemporanea dell’Accademia di Belle Arti di Verona ed è contributor per Exibart.

camilla compagni su instagram