Le Piante come coworkers | God is Green talks
Con Stefano Mancuso (LINV e Pnat) , Antonio Girardi (Pnat), Valentina Porceddu (School of Sustainability), Walter Mariotti (Domus), Leonardo Chiesi (UniFi) e Tommaso Perrone (LifeGate).
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Le piante sono uno dei temi chiave della seconda edizione di God is Green, il festival di Manifattura Tabacchi dedicato alla sostenibilità e al futuro. Con questo talk si è indagato il rapporto dell’uomo con il pianeta e con la sua componente botanica, cercando di immaginare il reale ruolo della specie umana all’interno dell’ecosistema Terra.
Le piante, con la loro longeva e pacifica esistenza, possono essere un esempio e una risorsa per il futuro dell’Homo sapiens? Attraverso semplici interrogativi come questo, che Tommaso Perrone direttore di LifeGate, ha posto ai relatori si sono aperte possibilità dalle infinite applicazioni, soluzioni alternative per non rinunciare all’esistenza del genere umano.
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Gli organismi vegetali rappresentano l’85% di tutto ciò che è vivo sulla terra, mentre gli animali lo 0,3%, questo a livello evolutivo significa che le piante sono decisamente più adattate alla vita sulla Terra. Come spiega Stefano Mancuso, neurobiologo vegetale, direttore LINV e co-founder Pnat, l’evoluzione non ha altri obiettivi se non la propagazione della specie, non ci sono mire di intelligenza, come la intendiamo noi, o di bellezza, ma solo di sopravvivenza. Si può dire che l’esistenza di una specie sia un semplice accidente, un caso che fortuitamente ha avuto successo su altri; questo successo però è limitato e fragile per l’essere umano, infatti è attualmente uno dei rari organismi che distrugge l’ambiente in cui vive, solo alcuni virus primitivi fanno lo stesso con il loro ospite.
“Non è il mondo che è in pericolo, ma l’esistenza dell’uomo; il pianeta e la natura ci sopravviveranno con grande gioia e, vista la nostra fugace presenza sulla Terra, di noi, dei nostri figli e di tutto ciò che abbiamo creato rimarrà ben poco.”
La sopravvivenza non è un dato di fatto, ma un obiettivo da raggiungere e per farlo bisogna studiare l’ecosistema in cui viviamo, ma soprattutto è utile comprendere le specie che hanno trovato il modo di farne parte con grande successo, come le piante.
Mancuso mette in relazione questo momento storico alla fine di una guerra che ha distrutto il paese, per andare avanti tutto dovrà essere ricostruito in modo che sia sostenibile, non inquinante e che non consumi più risorse del dovuto. A questo proposito le piante sono un enorme miniera di possibilità: semplicemente studiandole e imitandole si possono trovare la maggior parte delle soluzioni ai nostri problemi.
“La questione ambientale è una questione sociale ed è in assoluto il problema più importante che l’umanità abbia avuto nella sua storia. Siamo di fronte a una sfida epocale e queste sfide sono opportunità economiche immense.”
Stefano Mancuso
Su questo concetto si basa proprio il lavoro di Valentina Porceddu, architetto presso lo studio Mario Cucinella e docente di School of Sustainability, che attraverso lo studio e l’imitazione delle specie vegetali ripensa progetti architettonici in grado di migliorare la vivibilità delle città.
Valentina Porceddu parla anche di ‘energia imprigionata’ delle strutture, ovvero quell’energia contenuta nei materiali di un edificio che potrebbe essere sfruttata per il funzionamento dello stesso. Esattamente come nel metabolismo di un organismo vegetale si possono studiare i flussi che la ‘vita’ della costruzione produce e cercare di incanalarli in una sorta di economia circolare, creando una specie di ‘metabolismo’ dell’edificio, autonomo ed efficiente, che non produca rifiuti, ma che li riutilizzi.
“Da una parte è necessario integrare le piante con l’architettura, capirne i benefici e misurarli, dall’altra si può trarre ispirazione dalle strategie botaniche per innovare metodi progettuali e costruttivi. Questo è il coworking di cui abbiamo bisogno!”
Valentina Porceddu
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Dagli stessi presupposti nasce Pnat, che ha come obiettivo quello di studiare le piante e realizzare dei dispositivi innovativi per favorire la convivenza tra uomo e natura, migliorando così la vivibilità del pianeta. Pnat è un team multidisciplinare di progettazione coordinato e voluto da Stefano Mancuso e composto da architetti ed esperti di plant science.
Purtroppo, ci sono barriere culturali antichissime che ostacolano questa convivenza, l’origine stessa dei termini che fanno riferimento alla città derivano da urbs che viene del verbo ‘urvare’, che significa ‘fare un solco con l’aratro’. Questo ci dice che il primo e fondamentale atto di costituzione delle città è creare un confine che separa la città dalla natura. Da una parte la storia, l’uomo, l’ordine e dall’altra la complessità, la natura e il caos. Pnat vuole attraversare questo ‘solco’ e portare le piante nei nostri spazi e per poterlo farlo c’è bisogno di capire come convivere al meglio con le piante.
“Pnat è come una jazz band, funziona in maniera orizzontale: non è la bravura di chi fa l’assolo, ma è la capacità di inserire l’assolo all’interno di un ritmo complessivo. Questa è anche la differenza sostanziale che c’è tra la struttura degli organismi animali, costituiti da un cervello che ‘comanda’, e le piante che lavorano in modo orizzontale e non verticistico. Per noi questo è il vero modo di fare innovazione.”
Antonio Girardi
Tutte le convivenze volontarie si nutrono di un reciproco vantaggio, ad esempio la Fabbrica dell’Aria è un dispositivo che depura l’aria degli ambienti indoor usando la capacità intrinseca delle piante e migliorandola. Le piante metabolizzano gli inquinanti, che entrano a far parte del loro ciclo vitale e ci restituiscono aria pura.
“Sostenere la comunità che ci sostiene è il focus della convivenza ed è anche uno dei principi etici della sostenibilità.”
Antonio Girardi
“L’uomo è un soggetto squisitamente culturale, che agisce e agendo culturalizza il mondo, trasformando l’atto in potenza, facendo così venire meno la differenza, lo iato, tra la realtà e la possibilità”
Theodor Wiesengrund Adorno (Dialettica negativa).
Tornando al tema della separazione che l’uomo ha posto, costruendo solchi e confini, tra la natura e la società si inserisce la riflessione fuori dal coro di Walter Mariotti, direttore editoriale di Domus.
Mariotti cita parole di Theodor Wiesengrund Adorno, che individua la distinzione tra prima natura, la foresta e il caos fuori dal solco della città, e seconda natura, quella attuale e che è stata creata dalla presenza umana e dalla cultura. Adorno non è mosso dalla nostalgia del bosco, perché secondo lui non serve tornare a una vita pastorale e bucolica, che vede come un mito irreale e illusorio e quindi estremamente pericoloso.
La natura è in divenire: non più una natura con la N maiuscola, non più una dea, ma un prodotto modificato dall’umanità. Per Walter Mariotti si deve ammettere e comprendere l’essere storico come essere naturale, non si deve idealizzare un qualcosa che non esiste più, un essere puro al di sopra, o al di sotto, dell’essere umano.
Si percepiscono molte difficoltà nell’orientare il dibattito tra questi interrogativi e questo tradisce molte fragilità, soprattutto in quella che è l’élite occidentale. Le élite sembrano sempre meno preparate sul piano teorico e quindi esposte a suggestioni di pancia, che rispondendo a impulsi emotivi e mediatici trasformano ogni domanda in propaganda.
“Se l’uomo è una possibilità della natura e l’uomo distrugge il mondo, la distruzione del mondo è una possibilità della natura.”
Murray Bookchin (The Ecology of freedom)
“L’informazione consuma attenzione, ricchezza di informazione produce povertà di attenzione.”
Herbert Simon, economista
A livello fisiologico i nostri apparati percettivi si sono evoluti in modo da dare più rilevanza a ciò che potrebbe essere una minaccia per l’incolumità della specie, quindi sicuramente non le piante che in generale non costituiscono un pericolo per l’uomo. Per via della grande quantità di specie vegetali normalmente presenti in natura l’essere umano spesso le considera più come uno sfondo, un contorno, più che come un soggetto; se si mostra una foto con una grande foresta e un piccolo animale prenderanno tutti nota dell’animale piuttosto che dell’immensa quantità di piante sullo sfondo, questo fenomeno si chiama plant blindness, cecità alle piante.
Questo atteggiamento delle alte sfere della società contemporanea non è altro che il sintomo di alcuni atteggiamenti diffusi di cui parla Leonardo Chiesi, sociologo e docente universitario presso l’Università di Firenze.
Per capire se c’è attenzione alle piante, a livello sociale, si possono osservare i dati su ciò che si studia nel mondo. Prendendo ad esempio i dati degli USA si può vedere che nel 2015 i laureati statunitensi sono stati 1.900.000, di cui 370.000 in Economia e commercio, 230.000 in Medicina, 160.000 in Scienze sociali, 117.000 in Psicologia e 106 in Ingegneria.
Più della metà del totale ha scelto materie strettamente legate all’uomo e ai suoi bisogni. I laureati in Scienze naturali e agrarie sono stati solo 37.000 e di questi solo una piccola parte in ambito botanico, questo ci dice chiaramente che non c’è attenzione sociale alle piante.
Il tasso di innovazione in un campo scientifico dipende da quante persone sono attive in quel campo. La carenza di finanziamenti dipende dalla carenza di richieste in un dato campo di ricerca e non viceversa come spesso si crede. Allo stato attuale è evidente che visto lo scarso interesse collettivo verso le piante, la maggior parte dei fondi saranno impegnati in altri campi di ricerca.
“Il cambiamento deve essere là dove si può agire sul futuro, cioè nelle scuole, nella speranza di introdurre dei processi che nel tempo possano portare un riassetto di questa cecità sociale nei confronti delle piante.”
Leonardo Chiesi